le attività della cooperativa sono naturalmente sospese in questo periodo di emergenza. Siamo vicini a tutti coloro che stanno vivendo momenti di difficoltà, invitandoli a resistere e a non farsi abbattere.In questo periodo, tenere le distanze è il segno della cura e del rispetto che abbiamo per gli altri.
Ecco la sezione dove pubblicheremo periodicamente dei post per farvi e farci un po’ di compagnia con racconti sulle meraviglie della Campania, cominciando da giovedì 12 marzo.
Ci auguriamo che, grazie alla collaborazione di tutti, questo periodo finisca al più presto così da poter godere di nuovo delle bellezze della nostra regione e dell’Italia intera.
Giovedì 11 marzo
Per restare a casa con l’arte oggi parliamo di uno dei capolavori del Rinascimento, la Danae di Tiziano, conservata al Museo Nazionale di Capodimonte.
L’opera racconta della figlia di Acrisio, re di Argo, al quale era stata profetizzata la morte per mano di un nipote. Per evitare che la sua unica figlia procreasse, egli la rinchiuse in una torre di bronzo. Ma la bellezza della ragazza sedusse Zeus che, sotto forma di pioggia d’oro, riuscì a congiungersi con lei. Dalla loro unione nacque Perseo.
Il mito viene rappresentato da Tiziano con una grazia ricca di seduzione, attraverso pennellate morbide e rapide che creano una luce dorata ed una atmosfera rarefatta. Danae è sdraiata sul letto nuda, tra le lenzuola sgualcite, in stato di completo abbandono. Indossa solo un prezioso bracciale e degli orecchini di perla, il volto è sorridente e rivolto verso l’alto, a guardare la nube che si materializza in forma di monete, alla presenza di Cupido.
L’opera fu realizzata nel 1545, commissionata dal cardinale Alessandro Farnese per le sue stanze private. Tiziano la iniziò a Venezia e la completò in Vaticano. Qui Michelangelo ebbe la possibilità di vederla, lodandone il “colorito”. La modella alla quale si ispirò l’artista fu probabilmente Angela, cortigiana di palazzo Farnese ed amante di Alessandro, rappresentata anche in altre opere destinate al cardinale.
Il dipinto confluì poi nella collezione Farnese, la raccolta di arte e antichità che Carlo di Borbone ereditò dalla madre Elisabetta. Insieme a molti altri capolavori del Museo, fu trafugata dai nazisti durante la seconda guerra mondiale e ritrovata poi in una miniera di Salisburgo.
Per restare a casa con l’arte oggi parliamo di una delle sculture conservate nella Sala Carlo V, al I piano del Museo civico di Castel Nuovo – Maschio Angioino, e che fa parte della collezione di Francesco Jerace, il grande scultore di origine calabrese vissuto a Napoli tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento.
Il grande artista, tra le sue innumerevoli opere, scolpì anche molti busti femminili, nei quali la tradizione realista napoletana si mescolava con reminiscenze della scultura classica italiana del Cinquecento e del Seicento.
Tra queste opere una delle più coinvolgenti appare quella denominata Era de maggio, la cui creazione risale al 1886, con la realizzazione del modello in terracotta nel suo studio napoletano di via Crispi. Qui, mentre il maestro era intento a plasmare la creta, la modella che stava posando viene colpita dalle note della canzone tratta dalla poesia di Salvatore Di Giacomo “Era de maggio”, musicata dal maestro Costa, un vero e proprio successo del momento.
Come ci racconta la studiosa e critica Isabella Valente, che riporta un racconto del genero di Francesco Jerace, “la donna che posava soggiacque all’incanto soffuso nell’intimità dello studio: l’ampia vetrata rifletteva la luminosità del giardino, l’abbagliava, lei socchiuse gli occhi, le labbra si schiusero al sorriso, reclinando languidamente all’indietro la testa con la fluente capigliatura ondulata e le mani del Maestro divennero frementi nella modellazione…”
Successivamente, dal calco del modello, furono realizzate due sculture di cui una è quella conservata oggi all’interno del Maschio Angioino.
Per stare a casa con l’arte oggi ci dedichiamo ai pittori fiamminghi del XVI secolo e, in particolare, a Teodoro d’Errico e al soffitto cassettonato della chiesa di San Gregorio Armeno, così chiamata perché dedicata al santo evangelizzatore dell’Armenia, ma nota ai napoletani anche come chiesa di Santa Patrizia, in quanto sono qui custodite le reliquie della santa e, soprattutto, il suo sangue, che si liquefa addirittura una volta a settimana, ogni martedì!
Già all’inizio del Cinquecento il “viaggio in Italia” era un momento fondamentale nella formazione dei pittori fiamminghi, per la loro crescita culturale ed artistica.
Una nuova ondata migratoria di artisti dai Pesi Bassi ci fu però in seguito alle tensioni religiose successive alla strage effettuata dalla fazione cattolica ai danni degli ugonotti a Parigi nella notte di San Bartolomeo, tra il 23 e il 24 agosto del 1572, definita “il peggiore dei massacri religiosi del secolo”.
Dirk Hendricksz, nato nelle Fiandre attorno al 1542 e disceso a Roma già verso il 1568, arriverà a Napoli intorno al 1573, diventando per più di trent’anni uno dei più importanti artisti operanti nel vicereame spagnolo, specializzandosi sia nella realizzazione di piccoli quadretti devozionali sia, soprattutto, nelle grandi cone per gli altari delle tante chiese e congreghe esistenti. Teodoro d’Errico sarà il nome, più semplice e pronunciabile, che gli assegneranno i napoletani.
Il soffitto ligneo di San Gregorio Armeno fu commissionato all’artista intorno al 1580: le benedettine lo concepirono come un vero e proprio strumento di esaltazione della potenza, ricchezza e magnificenza del monastero, finalizzato a celebrare tutte le reliquie possedute, presentate attraverso i santi cui si collegavano. Il soffitto è suddiviso in quattro settori dedicati al Battista, a San Gregorio Armeno, a San Benedetto e ai Santi Pantaleone, Biagio, Stefano e Lorenzo. Ciascuno di essi ha un riquadro rettangolare e ai quattro angoli quattro ovali con storie correlate, inquadrati da due coppie di angeli.
Si tratta della prima impresa di questo genere e sicuramente la più riuscita di sofisticato soffitto reliquario, in cui le parti dipinte, realizzate perlopiù da Teodoro d’Errico che fu comunque supervisore dell’opera, coesistono armonicamente con la carpenteria lignea intagliata e dorata, realizzata con molta probabilità dal napoletano Giovanni Andrea Magliulo. Sicuramente accanto al fiammingo lavorarono altri artisti, sia nordici che meridionali, entrati nella sua fiorente bottega, che tanto rimasero influenzati dalla sua maniera.
Il 25 Marzo è la data che gli studiosi individuano come inizio del viaggio ultraterreno della Divina Commedia: per questo oggi, per la prima volta, si celebra il Dantedì, la giornata dedicata a Dante Alighieri, simbolo della cultura e della lingua italiana.
Ricordarlo insieme sarà un modo per unire ancora di più il Paese in questo momento difficile. Le celebrazioni, seppur a distanza, si articolano lungo tutta la giornata sui social, con pillole, letture in streaming, performance dedicate a Dante. L’iniziativa è del Governo, il Ministero dell’Istruzione ha invitato docenti e studenti a farlo durante le lezioni a distanza, ma la richiesta è rivolta a ciascun cittadino.
La cooperativa SIRE vi parla perciò di Largo Mercatello, oggi piazza Dante, slargo esterno alle mura della città destinato in passato ad ospitare mercati, fiere e spettacoli.
Collegamento con l’interno fu – a partire dal 1624 – Port’Alba, voluta dal vicerè Antonio Alvarez de Toledo, duca d’Alba, per rendere ufficiale un “pertuso”, cioè un’apertura che coloro che abitavano fuori le mura avevano realizzato per entrare più velocemente in città. La porta era chiamata anche porta Sciuscella, a causa del rumore provocato dalle foglie degli alberi di carrubo presenti nel Largo durante le giornate di vento.
La conformazione della piazza muta nel 1757, con la realizzazione, su progetto del Vanvitelli, del Foro Carolino, monumento celebrativo di Carlo di Borbone: l’edificio, con le due caratteristiche ali ricurve, vede in alto la presenza di ventisei statue rappresentanti le virtù reali, realizzate da diversi artisti tra cui Giuseppe Sanmartino, e al centro una nicchia che avrebbe dovuto ospitare una statua equestre del sovrano, mai realizzata. Dal 1843 la nicchia costituisce l’ingresso al Convitto dei gesuiti, divenuto nel 1861 Convitto nazionale Vittorio Emanuele II, ospitato nei locali dell’antico convento di San Sebastiano.
La piazza a partire dal 1871 ospita la statua di Dante Alighieri, realizzata dallo scultore Tito Angelini. I fondi per la sua costruzione furono frutto di donazione popolare, alla quale partecipò anche Vittorio Emanuele II con l’ingente somma di duemila lire! Tito Angelini, figlio d’arte, a Napoli fu insegnante di scultura e direttore della Scuola di disegno. E’ autore anche di altre importanti opere ottocentesche presenti a Napoli. Tra le più famose, il sepolcro della seconda moglie di Ferdinando di Borbone, Lucia Migliaccio, nella chiesa di San Ferdinando, il monumento a Paolo Imbriani a piazza Mazzini, i busti di Carlo Filangieri e Agata Moncada dei principi Paternò presso il Museo Civico Gaetano Filangieri, commissionati allo scultore dal figlio – ed ideatore del Museo – Gaetano Filangieri.
#Artyouready: anche la cooperativa SIRE aderisce al flash mob digitale del patrimonio culturale italiano organizzato dal Mibact! Da stamattina su tutte le piattaforme vengono pubblicate foto dei siti culturali italiani, per ricordare che il patrimonio culturale, sebbene momentaneamente chiuso al pubblico, è vivo e rappresenta l’anima pulsante della nostra identità.
Approfittando dell’occasione, oggi vi parliamo di una delle sezioni più affascinanti del Museo Archeologico Nazionale di Napoli, quella dedicata ai mosaici: essa costituisce una delle più ricche collezioni musive esistenti.
La sezione contempla una serie di raffinati quadretti pavimentali a mosaico provenienti da diversi siti archeologici dell’area vesuviana, alcuni estremamente celebri come il cane alla catena, il “memento mori”, la “fattucchiera”, ma anche mosaici usati per rivestire colonne, ninfei e strutture architettoniche delle ricche domus rinvenute.
Un’intera sala è dedicata ai raffinati mosaici provenienti dalla Casa del Fauno, scoperta a Pompei negli anni Trenta dell’Ottocento. La domus era tra le più vaste della città, in quanto occupa per intero una insula della Regio VI. Deve il suo nome ad una statua in bronzo, raffigurante un satiro, posta sul bordo dell’impluvium dell’atrio.
Addentrandosi nella pars pubblica della domus, il visitatore del I d.C. avrebbe attraversato prima l’atrio, poi il grande peristilio per poi giungere ad un’esedra, un grande salone che costituiva la parte più rappresentativa della casa e che, come decorazione pavimentale, aveva la celebre Battaglia di Isso, oggi esposta in copia, mentre l’originale è al Museo. La scena rappresenta la battaglia che si svolse nel 333 a. C. tra Alessandro e Dario III di Persia. Il mosaico è probabilmente una copia del I a.C. di un originale dipinto in Macedonia da Filosseno di Eretria, poi andato perso.
Lungo quasi 6 metri ed alto 3 metri, si stima sia composto da un numero di tesserine che oscilla da una milione e mezzo a tre milioni: in un centimetro quadrato ci sono tra le 15 e le 30 tessere, di dimensioni che variano da 1 a 4 mm: di forme e colori diverse, secondo la tecnica di opus vermiculatum, sono disposte in maniera asimmetrica, seguendo il contorno delle immagini, in modo da dare grandi effetti di chiaroscuro, sfumature e profondità.
L’equipe di mosaicisti impiegati in loco per la realizzazione dell’opera, che probabilmente impiegarono anni a terminarla, rappresentarono il momento in cui l’esercito macedone, vittorioso, mette in fuga Dario, riconoscibile dal tipico copricapo persiano mentre, sul carro trainato da un nocchiero, con un gesto di disperazione, assiste alla morte di quello che probabilmente era un suo nobile soldato, trafitto dalla lancia di Alessandro. Il sovrano macedone occupa la parte sinistra della scena ed è rappresentato in sella al suo fido cavallo Bucefalo.
Impressionante la capacità di rappresentare anche i minimi particolari attraverso le piccole tessere di mosaico: tra i dettagli più sorprendenti emerge, in basso a destra, un soldato caduto, di spalle, del quale riusciamo però a vedere il volto in quanto si riflette nello scudo che ancora regge tra le mani.
La Pasqua si avvicina, quindi stamattina abbiamo deciso di raccontarvi le origini, storiche e mitiche, di due piatti tipici della tradizione napoletana in questo periodo: la zuppa di cozze del giovedì santo e la pastiera!
Ferdinando di Borbone, sovrano del Regno delle Due Sicilie, era ghiotto di pesce e, soprattutto, di cozze: amava pescarle personalmente e farle cucinare dai suoi migliori cuochi. Ma, allo stesso tempo, era anche molto religioso: per rispettare le indicazioni quaresimali e non rinunciare alla golosità, chiese quindi alle reali cucine di preparare un piatto semplice. Ne venne fuori una zuppa di cozze, condita con salsa e peperoncino piccante. Da quel momento la pietanza, gustosa ma umile, iniziò ad essere emulata anche dal popolo, diventando parte della nostra tradizione.
Per scoprire, invece, le origini mitiche della pastiera napoletana si deve andare molto più indietro nel tempo. Quando i coloni cumani fondarono la nuova città sulla collina di Pizzofalcone, decisero di dedicarla alla sirena Partenope. Da allora, ogni anno, per ringraziarla ed omaggiarla, gli abitanti le offrivano in riva al mare sette preziosi doni: farina, uova, ricotta, acqua di arancio, grano, spezie e zucchero. La sirena restituiva ai cittadini questi ingredienti sapientemente assemblati, sotto forma di squisita pastiera. E’ proprio il caso di dire: un dolce mitico!
Tra le visite di febbraio realizzate dalla Cooperativa SIRE, c’è quella che ha riguardato la Basilica di San Severo fuori le mura – da poco riaperta – piccolo gioiello nel cuore del Rione Sanità. La chiesa sorge sulle catacombe che nel IV secolo d.C. accolsero la tomba di San Severo, uno dei primi santi compatroni di Napoli, che fu totalmente rifatta a partire dal 1573.
Collegata alla chiesa si trova la cappella dell’Arciconfraternita dei Bianchi, fondata nel 1621 e rimodernata dai confratelli con dipinti e stucchi in stile barocco nel 1732.
Qui, a partire da dicembre 2019 e in concomitanza con la riapertura del complesso, è stata collocata l’opera contemporanea Il figlio velato dell’artista Jago – Jacopo Cardillo – giovane scultore di Frosinone che nel 2018 si trasferisce a New York, dove trova partner e mecenati in grado di finanziare il suo progetto.
Jago è un artista molto “social” che già in passato, in altri lavori, ha instaurato e mantenuto rapporti con il pubblico attraverso social network come Facebook, mostrando le evoluzioni delle sue sculture in time-lapse o attraverso le dirette.
Nel suo progetto l’artista intende eseguire un’opera che possa competere con il Cristo velato della Cappella Sansevero e, contemporaneamente, lo omaggi, decidendo che una volta terminata sia esposta permanentemente a Napoli. Dopo aver ipotizzato varie sedi, viene scelta quella dell’Arciconfraternita e, pertanto, la scultura viene donata alla chiesa del rione Sanità.
Per realizzare la scultura, in marmo del Vermont caratterizzato da venature grigie, Jago impiega quattro mesi, durante i quali lavora partendo da un unico blocco scelto personalmente in cava e creando l’immagine estremamente realistica e dettagliata – tanto da sembrare reale – di un bambino disteso, coperto da un velo sottile e trasparente, perfettamente lavorato, attraverso il quale ne emergono i tratti e se ne evidenzia la tenera età, dando allo stesso tempo l’idea di una morte violenta e di un futuro mancato.
Jago non dà una vera e propria spiegazione del senso dell’opera: alcuni, per esempio, possono vederci le vittime innocenti della camorra oppure altri i migranti morti in mare. Quello che ne emerge sicuramente è l’immagine di un sacrificio, non volontario come quello di Cristo, ma di un corpo sacrificato da altri, contro la propria volontà.
Potete approfondire la genesi dell’opera attraverso questa intervista allo scultore:
#sanità#jago#sansevero#figliovelato#tour
domenica 19 aprile
Chi in questo periodo di quarantena non ha provato almeno una volta a fare il pane?
Ecco perché oggi restiamo a casa…in un pistrinum, ossia un panificio, dell’antica Pompei!
Nelle città vesuviane l’importanza del pane è attestata dal gran numero di queste strutture, dove spesso si svolgeva l’intero ciclo di produzione, dalla macinatura del grano alla vendita del prodotto: ne sono state rinvenute più di trenta solo a Pompei. Spesso gli scavi hanno restituito anche resti carbonizzati di pane, talvolta integro, come quello in foto, rinvenuto a Pompei ed esposto nell’antiquarium di Boscoreale.
Alla pagnotta, prima della cottura in forno, si praticavano incisioni con il coltello, in modo che, una volta pronto, potesse essere più facile dividere in spicchi. Anche ad Ercolano sono stati ritrovati reperti di questo tipo, come nella casa dei Cervi, dove il pane aveva un bollo recante il nome del fornaio produttore, Celer, schiavo del padrone di casa.
I cereali utilizzati per la produzione furono inizialmente orzo e farro triturati, tanto che il nome “farina” deriva proprio da “farro”. Ma già dal V secolo a.C. comparve il frumento, preferito per la migliore qualità della farina ottenuta. In età imperiale si producevano pani di diverso tipo, di crusca, bianco – che era di qualità migliore – o nero, di qualità peggiore, al latte, all’olio, condito con grasso o impastato con uova.
Dalla ricostruzione in foto si capisce come poteva funzionare un ipotetico pistrinum: i cereali venivano accatastati in sacchi e versati in una mola, la macina manovrata da animali o da schiavi. Facendo ruotare i due pezzi della mola, uno pieno e conico e l’altro cavo e biconico, il grano si frantumava, diventando farina.
L’impasto poteva essere così manipolato, preparato e cotto in forno, producendo varie forme che venivano disposte sul bancone e vendute.
Come spesso accade, visitando i siti archeologici vesuviani, possiamo scorgere frammenti di vita di due millenni fa molto simili a quelli della nostra quotidianità.
#restiamoacasa#pompei#pistrinum#panificio#pane
domenica 27 aprile
27 Aprile di celebra in tutto il mondo la Giornata Mondiale del Disegno, un’occasione per festeggiare la creatività, sottolineare e riconoscere il valore della comunicazione attraverso il disegno e il suo ruolo di potente veicolo per la trasmissione e la condivisione di idee, progetti, esperienze.
Per restare a casa con l’arte, parliamo allora del “Gruppo degli armigeri”: conservato al Museo di Capodimonte. Si tratta dell’unico cartone autografo DI Michelangelo Buonarroti conservato integro.
E’ solo una parte del cartone preparatorio per l’affresco raffigurante “La crocifissione di Pietro”, che Michelangelo eseguì per la cappella privata di Paolo III Farnese in Vaticano.
A cosa servivano questi cartoni preparatori? Lungo le linee di contorno le figure hanno una foratura, finalizzata a quello che viene chiamato “lo spolvero”: dopo aver eseguito il disegno, il cartone veniva bucherellato, appoggiato alla parete e passato con del carboncino, che lasciava dei segni attraverso i fori.
In questo modo, una volta tolto il cartone dalla parete, si potevano unire i punti ed avere un disegno più preciso per poter poi eseguire l’affresco.
Cerase, percoche e la villa di Lucullo a Pizzofalcone
Nel I secolo a.C. Lucio Licinio Lucullo, politico, studioso di storia e filosofia, militare, costruì una lussuosa villa di delizie sulla collina di Pizzofalcone, lì dove secoli prima era nato il primo insediamento di Partenope. Le immense ricchezze accumulate durante la sua carriera gli avevano permesso di costruire diverse residenze, sia vicino Roma che in Campania, ma quella di Pizzofalcone doveva essere davvero immensa: oggi rimangono pochi ruderi di quello che si ipotizza sia stato un ninfeo, ma occupava probabilmente uno spazio che dalla collina degradava verso il mare, fino all’isolotto di Magaride – dove sorgerà poi il Castel dell’Ovo – e si estendeva addirittura fino all’attuale piazza del Plebiscito, arricchita da giardini, portici, piscine, terme.
Se immaginiamo come i romani furono bravi a sfruttare le naturali pendenze della costa campana per ottenere luoghi di otium dai panorami meravigliosi e a due passi dal mare, possiamo capire quanto bella e lussuosa poteva essere ai tempi di Lucullo la villa, che solo nel V secolo d. C. verrà trasformata in una fortezza prendendo il nome di castrum Lucullanum. Qui nel 476 morirà l’ultimo imperatore romano, Romolo Augusto.
Un luogo ricco di storia ma anche di curiosità: del suo proprietario sappiamo dalle fonti come fosse amante dei banchetti e del buon cibo, tanto che ancora oggi i pranzi abbondanti vengono definiti “luculliani”.
Lucullo fu anche il primo ad importare l’albero di ciliegio dall’Oriente, in particolare dalla città di Cerasunte, nell’odierna Turchia: da qui, il modo napoletano di chiamare il frutto, ‘a cerasa.
Ma nei giardini della villa era possibile ammirare anche alberi di pesca, così chiamati perché provenienti dalla Persia. La pesca gialla in napoletano viene chiamato percoca, termine che deriverebbe dal latino praecox, forse per la sua veloce maturazione.
Conoscete la leggenda di donna Albina, donna Regina e donna Romita?
La storia delle tra nobili sorelle, ultime discendenti del casato dei Toraldo, è raccontata da Matilde Serao: innamorate tutte dello stesso uomo, per non procurarsi sofferenze reciproche decisero di rinunciare al volere del defunto padre e far estinguere la loro famiglia, prendendo i voti e fondando tre monasteri, che in effetti esistono nel centro storico di Napoli.
Quello di Donnalbina era un monastero benedettino. La chiesa esisteva già nel IX secolo ma fu rifatta sia nel Seicento che ad inizio Settecento, diventando un piccolo gioiello barocco. Tra gli stucchi bianchi spiccano le tele del Solimena e di Nicola Malinconico, oltre che il prezioso altare in marmo policromi ed il monumento funebre di Giovanni Paisiello, realizzato da Angelo Viva e trasferito in chiesa durante il Risanamento.
Nel Museo Campano di Capua è ospitata la collezione delle “Madri”, tra le più rare che Musei italiani e stranieri possano vantare.
Nel 1845, durante uno scavo eseguito per lavori agricoli dal Sig. Patturelli, in prossimità dell’antica Capua, vennero alla luce i resti di una grande ara votiva con fregi architettonici, iscrizioni in lingua osca e un numero considerevole di statue in tufo riproducenti quasi tutte una donna seduta con uno o più bambini tra le braccia, dando la esatta prova che nel luogo fosse esistito un tempio. Questa tesi fu avvalorata dal fatto che tra le sculture solamente una differiva dalle altre per la spiccata impronta ieratica: invece di reggere neonati tra le braccia aveva nella mano destra una melograna e nella sinistra una colomba, simboli della fecondità e della pace,quindi quella sola doveva rappresentare la dea tutelare del tempio dedicato alla maternità.
La dea era la MATER MATUTA, antica divinità italica dell’aurora e della nascita e le “madri” rappresentavano “ex voto”; offerte propiziatorie ed espressione di un ringraziamento per la concessione del sommo bene della fecondità.
Le “madri” del Museo di Capua formano un complesso unico nel loro genere. Esse sono la testimonianza più eloquente del culto con il quale gli antichi campani onoravano il mistero della vita considerando la maternità come un dono divino e avvolgendo di spiritualità l’evento della nascita ritenendolo cosa sacra, come tutto ciò che di vitale esce dal seno della natura.
Oggi vi proponiamo uno dei tanti itinerari che offre la città di Napoli, facente parte di una serie di percorsi che intendiamo proporvi aventi come filo conduttore l’ambiente.
In questo itinerario andiamo alla scoperta di una collina rimasta per secoli non urbanizzata, il Miradois, un’altura vicina alla Reggia di Capodimonte che prende il nome dalla villa cinquecentesca del marchese di Miradois. Dall’alto dei suoi 156 metri il colle domina il centro antico di Napoli, offrendo un magnifico panorama già elogiato dalle fonti antiche.
Assecondando un progetto nato già in età borbonica, nel 1812, durante il decennio francese, la proprietà, che all’epoca era passata al Principe della Riccia, fu ritenuta la più adatta a costruire un Osservatorio, primo edificio in Italia nato con lo specifico obiettivo dell’osservazione astronomica. Secondo Giuseppe Piazzi, astronomo e futuro direttore dell’Osservatorio, “il luogo è ben scelto, lontano dallo strepitio della città, isolato e rinchiuso in un ampio giardino…con orizzonte libero”.
Partendo da Porta grande, l’ingresso principale del bosco di Capodimonte, si percorre la stretta via Sant’Antonio a Capodimonte che dopo pochi metri si biforca: a destra salita Capodimonte vi condurrà attraverso una ripida discesa al Rione Sanità, mentre a sinistra inizia salita Moiariello, la strada che costeggia il colle del Miradois. Lungo quest’ultima strada si incontrano, oltre all’ingresso principale dell’Osservatorio, l’ottocentesca Torre del Palasciano, la cappella Cotugno – così chiamata perché posta su un terreno appartenuto a Domenico Cotugno e oggi affidata all’Ordine dei Cavalieri Templari – e le pittoresche scalinate che, assecondando il pendio della collina, portano in pochi minuti a via Foria, rendendo la strada uno dei tanti percorsi della Napoli verticale, quell’insieme di scorciatoie usate soprattutto in passato per collegare le zone collinari al centro.
Se poi volessimo godere della bellezza della città, subito dopo la cappella Cotugno potremmo fare una deviazione e percorrere quella che fino ad inizio Ottocento era la strada privata appartenente ai Marchesi di Campolattaro, arrivando alla villa settecentesca ancora esistente, unica proprietà presente all’epoca sul colle oltre alla villa dei Miradois. Oggi la strada si chiama via Morisani e, attraverso una serie di tornanti, offre uno spettacolare panorama che va dalla collina di San Martino al Vesuvio, abbracciando tutto il golfo.
Una passeggiata per Spaccanapoli: camminando a testa in su emergono tanti bellissimi palazzi in cui colpiscono soprattutto i portali, riccamente decorati in marmo e piperno.
A Napoli, il cui centro è caratterizzato da vicoli stretti intervallati da slarghi nati senza una reale progettazione urbanistica, spesso angusti se paragonati alle piazze di altre città, il valore celebrativo della famiglia nobiliare non poteva trovare spazio nell’intera facciata – che spesso si presenta spoglia – ma doveva necessariamente concentrarsi nel portale, tanto più simbolo di potere e differenza sociale del proprietario quanto più elaborato, complesso e frutto della geniale inventiva di celebri architetti!
In foto: – palazzo di Sangro – palazzo Carafa della Spina – palazzo Filomarino – palazzo Carafa di Maddaloni